Era il 19 luglio 1992 quando una Fiat 126 carica di tritolo esplose lungo Via D'Amelio, a Palermo, sotto casa della madre di Paolo Borsellino, uccidendo il magistrato e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.
Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in una intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate.
Vent'anni dopo, sono ancora troppe le ombre sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia. Oggi, anzi, l'argomento torna d'attualità, arricchendosi di particolari che contribuiscono a rendere intrigata una vicenda mai chiarita fino in fondo. E nel dibattito imperversa un colloquio tra il presidente della Repubblica e l'ex ministro Nicola Mancino, intercettato dalla Procura di Palermo, i cui risvolti rischiano però di distogliere l'attenzione dal vero obiettivo, che deve restare l'accertamento della verità.
Abruzzo24ore.tv ricorda l'anniversario proponendo un articolo di Lirio Abbate, pubblicato sull'ultimo numero dell'Espresso, proprio in occasione dell'anniversario dell'uccisione del giudice che, insieme a Giovanni Falcone (morto nell'attentato di Capaci il 23 maggio dello stesso anno), stava provando a smantellare Cosa Nostra, e una riflessione del magistrato della Procura di Pescara Gennaro Varone sul dibattito di questi giorni che investe il Quirinale.
di Lirio Abbate
Vent'anni di bugie e depistaggi. E molte tessere che ancora mancano per chiudere il puzzle. Ma le indagini di tre procure stanno finalmente facendo emergere la più indicibile delle verità: e cioè che il giudice fu ucciso perché non ostacolasse la trattativa che era in corso tra corleonesi e uomini dello Stato.
Si conosce l'uomo che ha ucciso Paolo Borsellino e gli agenti di polizia (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina) che erano di scorta, ma non si sa perché ha organizzato la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio c'è stata una trattativa fra pezzi dello Stato e i mafiosi, ma non si sa dove ha portato Cosa nostra. Si è scoperto che le indagini subito dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie, ad autoaccusarsi della strage e rischiare l'ergastolo a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia.
Tanti pezzi mancano ancora in questo quadro.
Il boia di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta si chiama Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio che secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza dopo l'attentato di via d'Amelio ha trattato direttamente con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
I pm di Caltanissetta dopo tre anni di indagini hanno chiuso l'inchiesta individuando l'uomo che ha premuto il telecomando dell'autobomba carica di tritolo. E offre una nuova verità giudiziaria che ha portato alla revisione delle sentenze definitive: verranno riaperti quei processi basati sulle dichiarazioni di falsi pentiti, come Vincenzo Scarantino, che hanno fatto finire all'ergastolo persone estranee ai fatti.
I magistrati, grazie alla collaborazione di Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che per 19 anni avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Lo hanno fatto adesso Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino, Stefano Luciani e Gabriele Paci. Le indagini svolte dalla Dia di Caltanissetta sono riuscite a dare risposte ad alcuni interrogativi: dalla responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra, ai motivi per cui venne attuata la strage di via D'Amelio a soli 57 giorni di distanza da quella di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone e la sua scorta.
Un'accelerazione decisa per impedire che Borsellino ostacolasse la trattativa che era in corso tra corleonesi e uomini dello Stato.
Con l'istanza di revisione che i pm hanno consegnato al procuratore generale Roberto Scarpinato è stato accertato chi ha rubato l'auto, chi l'ha imbottita di tritolo e sistemata davanti al palazzo in cui abitava la mamma del magistrato. Graviano ha poi spinto il telecomando, appostato dietro un muro che separa via d'Amelio da un giardino. E' stata così esclusa la pista del Castello Utveggio e di un coinvolgimento, in questa fase operativa, di apparati dei servizi segreti. E' emersa la ricostruzione di un'operazione voluta da Totò Riina ed eseguita da Graviano e suoi picciotti fidati. Ma i pm proseguono le indagini su altri versanti: sull'agenda sparita, sui "soggetti esterni" a Cosa nostra e del boss latitante Matteo Messina Denaro.
di Gennaro Varone
Se il Popolo delle agende rosse vuole la verità, io appartengo a quel popolo. Ma attenzione: verità va tratta da fatti certi, da ragionamenti stringenti, mai portata a coincidere con sospetti, illazioni scenari immaginari.
Che sappiamo della trattativa Stato Mafia? Sappiamo, in realtà, una cosa ed una soltanto (ma si tratta di un fatto gravissimo): che l’ex ministro e giurista insigne Conso, presentatosi nel novembre 2010 alla Commissione Antimafia, ha candidamente dichiarato che lui, nel novembre 1993, ridusse a qualche centinaio di mafiosi il trattamento da 41 bis (carcere duro), nella ‘speranza’ che ciò contribuisse ad alleggerire la pressione di violenza che la mafia esercitava sullo Stato.
Ora, ci rendiamo conto della gravità di queste affermazioni? Un Ministro della Repubblica che, dopo le stragi Falcone e Borsellino, dopo che magistrati e poliziotti hanno pagato con la vita il loro non essersi mai piegati, PIEGA il capo davanti alla illegalità? nella speranza che? Questo dà la misura che qualcosa sia accaduto, in quegli anni. Questo dà vigore al sentimento di tanti di noi che vorrebbero, vogliono sapere. E che hanno diritto di sapere.
Ma attenzione: la via della verità, la via del Popolo delle Agende Rosse, è lastricata di specchietti per allodole e false prospettazioni. Una per tutte: il conflitto tra Capo dello Stato e magistrati di Palermo.
Tutti sappiamo, più o meno, che si tratta di questo: i magistrati di Palermo, intercettando le comunicazioni di Nicola Mancino, hanno captato un suo colloquio con il Capo dello Stato. Depositate le intercettazioni, il Capo dello Stato ha elevato conflitto davanti alla Corte Costituzionale, sostenendo che il Capo dello Stato non può essere intercettato (la legge 219 del 1989 lo vieta) e che quei nastri devono essere distrutti senza alcuna valutazione del giudice.
Ora. Enfatizzare questo conflitto ‘giuridico’ come uno ‘scontro istituzionale’, finirà per dare voce a due categorie di persone, egualmente NON interessate all’accertamento della verità ed aduse a perseguire altri e non dichiarati fini.
Innanzitutto, darà voce ai detrattori del Capo dello Stato, i quali vogliono far credere che egli abbia qualcosa da nascondere; così, spostando l’attenzione dell’opinione pubblica su ‘questa’ vicenda, anziché sull’accertamento della verità sulle stragi.
A me pare chiaro: il Capo dello Stato NON ha nascosto proprio nulla, dal momento che la sua iniziativa (scrivere al Procuratore Generale della Cassazione, per sollecitare un coordinamento tra Procure della Repubblica) è stata una iniziativa ufficiale e nient’affatto occulta. Enfatizzare il conflitto, portare pretestusamente ombre sul Capo dello Stato significa indebolire le istituzioni, in un momento in cui Esse debbono restare fortemente unite.
L’enfasi (che io respingo), in secondo luogo, darà voce a quanti sosterranno che i magistrati hanno abusato del loro potere, e non vedono l’ora di prendere questo a pretesto per una nuova proposta di legge sulla modifica delle intercettazioni e del diritto di cronaca. Con buona pace per l’esigenza di verità.
Il conflitto, invece, è puramente ‘giuridico’: i magistrati, a norma del codice, non avevano altro strumento che sottoporre le intercettazioni al giudice, perché ne decidesse la eventuale distruzione; il Capo dello Stato non poteva che elevare conflitto, poiché soltanto la Corte Costituzionale ha facoltà, superando con una sua interpretazione la legge processuale, di ordinare (o di consentire a) una distruzione senza valutazione di un giudice.
Peraltro, non credo affatto che in quelle intercettazioni ci sia la verità sulle stragi. Anzi. Quindi, un gran polverone sena senso.
Chi vuole la verità deve stare dalla parte delle Istituzioni: del Capo dello Stato, non meno che dei magistrati palermitani: in attesa che il conflitto venga risolto e si possa arrivare, serenamente ad un pronunziamento dei giudici su questa vicenda.